In un articolo che riguarda uno dei pilastri del post-immaginario, ossia Frida Kahlo, non posso esimermi da una forma testuale puramente personale, poiché l’incredibile figura della pittrice messicana è entrata quasi per caso anche in un mio pezzo di immaginario artistico, nonché di coscienza umana.
Tempo fa, girovagando in una splendida giornata per Napoli, improvvisamente mi ritrovo davanti Palazzo Fondi dove noto che è in rassegna una mostra su Frida dal titolo “Il caos dentro”. Risultato: acquisto i biglietti per una futura domenica.
Ammetto che l’azione non è stata prettamente volontaria, bensì inconscia. Forse spinto da un’innata curiosità, o condizionato dalle tendenze, decido di immergermi in un percorso postmoderno, ossia in un pastiche con immagini multimediali, reperti, oggetti rari, didascalie, e senza dimenticarlo con opere.
Raccontare dettagliatamente l’esperienza renderebbe l’articolo estenuante, l’unico elemento che desidero annotare – il filon rouge per le righe successive – è quello che mi ha maggiormente colpito della mostra: i colori. Quei colori che permeano l’ambiente, sgargianti, accesi, accecanti, li ho visti soltanto nei dipinti di scuola fiamminga o in una pellicola della Disney.
Mi ha assillato da quel giorno un quesito: come è possibile che nell’immaginario di una pittrice dall’esistenza sofferente e deprimente possano esserci colori così positivi, così solari? Poi, nel calderone digitale di Netflix, ritrovo un film dell’adolescenza, ossia “Frida” di Julie Taymor (2002), quello con una sontuosa Salma Hayek, e in ciò che oggi si definisce re-watch si razionalizza quel perché.
Parto però da un altro interrogativo. Il perché il film della Taymor rivitalizza o almeno aiuta a rinvigorire l’immaginario su Frida? Tutto dipende da un trittico: la nuova avanzata dagli anni ‘2000 della corrente femminista in ambito politico e sociale, l’evoluzione multimediale delle mostre d’arte e infine, l’importanza della “feminist film theory“ come specifica teoria filmologica sul cinema.
Quando il biopic riformula l’immaginario collettivo
Nonostante ciò, vige un’altra motivazione prettamente cinematografica.
Il biopic, che è uno dei molteplici adattamenti sulla vita e le opere di Frida, dà risalto nella maniera più razionale ed esauriente possibile ai tanti aspetti dell’odissea esistenziale dell’artista:
- il rapporto con la famiglia;
- nascita ed evoluzione della sua arte e del pensiero antropologico e politico;
- l’essere costantemente e su tutti i fronti anti-convenzionale;
- le gioie e i dolori del rapporto infinito e maledetto con Diego Rivera;
- i desideri, le paure e le speranze
Tantissimi temi, da inserire in una pellicola che complessivamente è potente, ironica e sgraziata. La pittura entra nelle inquadrature anticipando o sostituendo le immagini cinematografiche, alternandosi con visioni oniriche o metaforiche.
La pittura che la regista inserisce non è soltanto un elemento tecnico/estetico, anzi viene utilizzata come fattore emotivo, perché essa è espressione di ogni impulso, di ogni momento ed è riscatto e salvezza. Dal 2002 quindi riemerge con nuova linfa l’immaginario sull’artista, riemergono azioni e pensieri di una donna ancora attuale, nonostante sia vissuta nei primi decenni del ‘900.
Il Frida di Julie Taymor slancia la Kahlo verso lo star system contemporaneo, verso un ulteriore mitizzazione sociale, verso il mondo della moda e inoltre come eco di una femminilità fiera, pura, tenace, senza vergogna, timore e limitazioni.
Quelli come Frida sono artisti della vita (qui un articolo sulla pittrice Remedios Varo), in alcune circostanze desiderano la fine del viaggio più di ogni altra cosa, quindi divengono quelli che non vorremmo mai essere. Non ci rendiamo conto che la negatività infine siamo proprio noi, perché loro con il linguaggio, gli sguardi, i modi di fare e attraverso le rispettive attività, che siano banali o sorprendenti, declamano con vigore: “Viva la Vida”
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