Ripensare l’oggetto d’arte come strumento di relazione temporale attraverso la traccia memoriale impressa con il gesto
La contemporaneità evidenzia come l’oggetto d’arte non sia più consustanziale dell’arte stessa, per cui diventa doveroso metterlo in discussione per poterne capire nuovamente le argomentazioni. A mio avviso, tale crisi può essere risolta attraverso l’analisi dell’oggetto nella sua dimensione temporale – intesa in senso cairologico – e soprattutto della relazione profonda che lega memoria e segno.
La memoria è il catalizzatore tra le disordinate istanze nel tempo. Essa favorisce le connessioni che permettono di vivere non solo i momenti passati, ma anche gli istanti presenti e le prospettive future in un’unica trama, consentendo di sperimentare appieno la coscienza del tempo.
La memoria è la prova che il tempo si muove in maniera radiale e non ordinariamente lineare come spesso si ritiene; tale movimento costituisce la cornice-ragnatela nel cui centro vi è la coscienza. Essa, inoltre, insegna a tener conto del fatto che i legami tra i modi del tempo non sono mai inerti, bensì coincidono con la costruzione continua di nuovi significati.
Queste relazioni temporali, prima percepite e poi vissute, definiscono il pensiero dell’individuo e quindi anche la sua identità. In tale contesto prende vita il tempo cairologico nel quale, attraverso una dialettica di attesa e azione, l’individuo è.
Traslando il suddetto assioma nell’ambito dell’arte visiva, considerando dunque il tempo come aggregato di eventi di natura diversa che costituiscono un qualcosa, l’oggetto d’arte va inteso come spazio-tempo, ossia come spazio nel quale vanno intersecandosi eventi-azioni differenti in momenti precisi, che costituiscono poi la composizione.
Genericamente, la dimensione temporale dell’opera è spesso limitata alle questioni storico-artistiche, per cui il valore del tempo e degli eventi legati all’oggetto d’arte o al suo artefice godono di rilevanza solo da un punto di vista aneddotico.
Al contrario, il segno individuabile in un’immagine non si limita a valere come semplice dato storicizzato, ma costituisce di per sé una testimonianza che determina l’essenza stessa dell’immagine, perché è una traccia di un preciso gesto e quindi di un’azione che è condizione d’esistenza dell’opera e della sua identità.
L’opera, allora, se non compresa come insieme di questi gesti compiuti per realizzarla, appare vuota di identità. Essa deve risultare esperibile negli elementi che costituiscono la sua costruzione, nei momenti e negli atti che le hanno dato la forma, perché possa essere intesa come luogo del tempo, che è sua sostanza.
Il fulcro dell’oggetto artistico quindi, consiste nell’azione dell’artista e non nell’oggetto in sé, per cui esso ha bisogno di essere ripensato non come fine a sé stesso, autoreferenziale, bensì come testimonianza della serie di azioni che vi sono impresse e che sono sempre visibili grazie ai segni-tracce. Esso deve mutare la sua condizione da oggetto d’arte a oggetto dell’arte, inteso perciò come qualcosa soggetto a precisi processi creativi esperibili.
I segni presenti nel paradigma di opera fin qui descritta non hanno il fine di significare, anche se possono farlo. Contrariamente, hanno lo scopo di sussistere, dopo che hanno assunto valore tramite i gesti realizzati per dare loro vita.
La loro sostanza è quella di oggetti del tempo che ostentano quella serie di azioni compiute in essi, come impressioni, apposizioni, accostamenti e discostamenti, sovrapposizioni permeate di emozioni e stati d’animo differenti, che caratterizzano il fare artistico, ma anche di tutte quelle pulsioni a carattere inconscio solo apparentemente insignificanti, tuttavia cariche di energia.
Che il segno nasconda e mostri contemporaneamente tutta una serie di cariche emotive-psicologiche-energetiche si evince negli studi di psiconologia di Nato Frascà intorno allo scarabocchio degli adulti. Attraverso questo, Frascà scova la non casualità del gesto, che in realtà è motivato da esperienze ed emozioni a carattere esplicito e – soprattutto – implicito, che sono maturate durante la vita e già durante la fase prenatale e che vengono restituite tramite segni-segnali collocati in specifiche parti del campo visivo o caratterizzati da forme peculiari. Frascà dimostra scientificamente che ogni evento modifica il proprio modo di costruire gesti e quindi di costruire in generale.
Nell’opera dell’artista oltre l’azione, anche l’attesa svolge un ruolo fondamentale. Recuperando il carattere etimologico dell’attesa (volgersi a) se ne riscopre la funzione di sospensione volontaria del tempo, non è un momento passivo, ma un’azione a tutti gli effetti, un atto-non-atto tra due momenti, due gesti. Per questo motivo l’astensione dal segno in un determinato momento o luogo, risulta essenziale tanto quanto l’impressione del segno stesso nella composizione.
Nella mia poetica, l’analisi, rivolta all’approfondimento del tempo e del segno trova adito tramite il mosaico, una tecnica dai costrutti concettuali talmente saldi da sussistere al di là della tecnica stessa, come la condizione basilare che la distingue da tutte le altre tecniche: la tessera, cioè l’elemento come parte fondamentale del tutto.
La costruzione musiva consente di mantenere allo stesso tempo sia l’aspetto di una composizione sia l’aspetto di un insieme: è uno ed è tutti. Nel mio fare artistico questa viene estrapolata dal suo contesto e viene inserita in una dimensione pittorica e, soprattutto, grafica. L’intenzione non è di snaturare la disciplina, ma di fondere la sua integrità con dei supporti differenti.
L’esperienza del tempo si riscontra all’interno del segno visibile, della traccia esperibile nelle opere che testimonia solo e solamente l’evoluzione costruttiva del percorso, reso attraverso l’inserimento di tessere in serie, che funge da testimonianza del processo temporale realizzativo. La dimensione temporale, dunque, vuole essere espressa visivamente attraverso la composizione numerabile, intesa aristotelicamente come movimento dal primo al poi, in continuo divenire.
L’opera non assume solo il valore di oggetto-per, cioè finalizzato alla costruzione di qualcosa, ma anche e soprattutto come ricordo del momento della costruzione, ponendosi quindi come micro-evento che, insieme ad altri micro-eventi simili, ma unici, costituisce un evento più grande.
La scansione, tessera dopo tessera, apposizione dopo apposizione, ma anche attesa dopo attesa, dà la possibilità a chi lo guarda di immaginare agilmente l’andamento creativo, la coreo-grafia che determina la scrittura del tempo. Si tratta di una coreografia introversa, cioè rivolta in sé, finalizzata ad attirare l’attenzione a ciò che è celato alla vista.
La pietra, divenuta presenza di un evento, viene alleggerita dalla sua consistenza materiale e viene appesantita dalla sua consistenza temporale.
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