Quante volte abbiamo detto o ascoltato una frase di questo tipo davanti ad un oggetto con una forma particolare, ma siamo sicuri di sapere cosa significa “è di design“?
Comunemente tale affermazione emerge per via dell’impatto visivo che un oggetto suscita al primo sguardo, nonché all’estetica, ed erroneamente allo stile moderno, escludendo il processo creativo e pratico di un prodotto. Questo è un problema? Beh, si. Ma sono sicura che dopo aver fatto chiarezza sul termine lo utilizzerai con una maggiore consapevolezza.
Sebbene i designer lottino contro la bruttezza, il design è un processo, lo sviluppo di un’idea innovativa che tiene conto degli aspetti fisici, psicologici e culturali, e che a sua volta risolve un problema ponendo soluzioni capaci di soddisfare bisogni umani. Bisogni anche semplici, quotidiani, come per esempio accomodarsi su una seduta piacevole. Infatti Massimo Vignelli sostiene che se è uno stile non è design.
Un oggetto può essere “di design” anche quando risulta sgradevole al nostro gusto, purché funzioni. Se si pensa a prodotti, spazi e servizi che si sono aggiudicati un posto nella storia del design è di sicuro per la loro evoluzione, che in qualche modo ha contribuito a un cambiamento, tecnico, ergonomico o produttivo che sia.
Siamo onesti, continuiamo ad usare lo spremiagrumi che ci ha dato la nonna anche se non è bellissimo, anche se non è quello di Alessi disegnato da Philippe Starck (puoi acquistarlo qui), e lo riponiamo nel mobile della cucina subito dopo averlo utilizzato perché stanno arrivando degli ospiti e “sembra brutto lasciarlo in giro per casa”. Lo usiamo ancora perché fa il suo dovere: è leggero, pratico da afferrare, e facile da pulire.
Oggi più che mai si riconosce il valore dell’esperienza utente, se questa è positiva di sicuro incide sull’affezione e sulla voglia di accedere nuovamente all’uso di un oggetto. Uno dei punti fondamentali di questa tematica è la riproducibilità, la diffusione.
Cos’è l’esperienza utente? Donald Norman, padre di questo concetto, mette l’uomo al centro di ogni traiettoria ed è per questo che l’UX (User Experience) fa riferimento al vissuto di una persona quando interagisce con un prodotto servizio o un sistema.
Un icona memorabile è la sedia N.14 disegnata da Michael Thonet nel 1860, ad oggi resta la sedia più venduta e copiata al mondo, composta da soli sei pezzi uniti tra loro con dieci viti.
In tal caso l’evoluzione si basava, non solo sulla capacità di aver ridotto il numero degli elementi, ma anche dalla sintesi costruttiva, tant’è che la spalliera era un pezzo unico con le gambe posteriori. Queste caratteristiche permisero di impacchettare cinquanta milioni di esemplari, distribuiti in quegli anni, in spazi molto ristetti, semplificando i trasporti e alleggerendo i costi di produzione e di vendita.
Una meravigliosa affinità tra tecnica e stile, una leggerezza e un trasparenza incredibile affiancata ad una resistenza capace di lasciare tutti senza parole. Prodotto amato da artisti, poeti, attori, ristoratori e viene accolta dai più grandi musei di Design come il Moma di New York.
A quanti di noi è capitato di acquistare un bel oggetto, di rientrare a casa e scoprire che non compie il lavoro per il quale è stato messo sul mercato? In questo caso ci rendiamo conto che qualcosa è andato storto, segnando la nostra esperienza come “negativa”, ma quanti di noi si son seduti in un bistrot sulle gambe della sedia brevettata da Thonet senza neppure farci caso? Questo è il design, il buon design. Vive e ci soddisfa in silenzio, non deve essere bello deve essere invisibile.
Vi invito a guardarvi intorno, a notare quali e quanti sono gli oggetti che vi circondano, che usate, che non riuscite ad abbandonare. Poi, soffermatevi sui prodotti che invadono i vostri spazi pur essendo abbandonati lì. Se ne avete voglia provate a liberarvene, analizzate cosa cambia con l’assenza di qualcosa priva di una funzione. Probabilmente non ve ne renderete neppure mai conto.
Se custodite qualcosa con un ruolo discutibile, che vi faccia almeno emozionare.
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