Uno sguardo antropologico che guarisce
Olga Carol Rama è stata riconosciuta come una delle grandi artiste del Novecento, paragonabile per storia e spessore alla grande Louise Bourgeois. Una personalità potente e senza tempo che ha dipinto e fatto arte tutta la vita per necessità, per vera urgenza, incurante delle leggi e delle regole del mercato.
Anni fa, nello studio di un amico pittore e dietro suo invito, sfogliai, non senza inquietudine, un catalogo coloratissimo di alcune opere di questa artista che non conoscevo e che mi apparve subito potente e vibrante, fuori dagli schemi. Il nome con cui firmava le opere era carolrama. Sulla copertina campeggiava l’immagine del volto acquerellato di una ragazza dagli occhi larghi. La lingua rossa e appuntita le spuntava fuori impudica e giocosa. Mi ha colpito subito.
Decisi di scrivere su questa pittrice la mia tesi di laurea. Anzi, la sensazione che ho avuto per molto tempo è che quasi mi avesse scelto lei, anche se una parte di me era “turbata” di fronte ad immagini forti e crudamente evidenti. Immagini di memorie autobiografiche, piene di erotismo e di urgente bisogno di “guarire” dalla vita, con la vita stessa. Attraverso oggetti carichi d’uso e di esperienza quotidiana. Attraverso situazioni di trasgressiva banalità.
Così, ho incontrato Carol Rama, questa volta realmente, in carne ed ossa, potendo gioire della sua presenza silenziosa e iconica nel suo studio a Torino, in via Napione. Stanze raccolte, silenziose e cariche di oggetti, trovati, donati, comprati e ovunque ricordi e fotografie, lei giovane, lei con suoi amici, Edoardo Sanguineti, Massimo Mila, Man Ray, Andy Wharol, lei riccia e scomposta.
Mi colpì il buio. Le finestre erano serrate e protette da tende pesanti e scure che non facevano entrare la luce del giorno, lo studio era illuminato da lampade ovunque. Mi accolse fiera e umile: “perché vuole fare la tesi su di me?”. Una gonna nera, lunga, la treccia che le circondava i capelli e il viso, lo sguardo profondo. Mi mostrava gli oggetti, i ricordi, gli stessi che dipingeva su fogli sparsi, passando da una stanza all’altra. Provavo la sensazione incredibile di essere dentro l’Arte.
Il mio amore per l’arte e per l’antropologia si ritrovava in quelle immagini anche se ne avvertivo il legame solo intuitivamente. Sentivo la forza della memoria, come racconto e gioco dell’identità, il potere simbolico dell’evocazione di oggetti marginali e normalmente rifiutati, come feticci di un rito magico. E il mito, il linguaggio carico di simboli, il senso della continuità. Dell’ordine delle cose.
Ho provato a rileggere il lavoro di questa affascinante personalità di artista totale al di là del senso e valore estetico, con “la valigetta degli strumenti” dell’antropologia, attraverso uno sguardo che poi si è rivelato essere identico, come incontrassi una sciamana nella sua tenda. L’ho incontrata nuovamente nel 2004 in occasione di una sua personale alla Fondazione Sandretto e ancora in una delicata mostra dedicata alle sue carte, curata da Nuvola Lista e dal grande critico Gillo Dorfles (che ne ha scritto un ritratto affascinato e incisivo), nel 2007 al Museo di Materiali Minimi d’Arte Contemporanea (MMMAC) di Paestum.
“Sono nata a Torino anche d’aprile nel 1918 e dunque quelle immagini sono la testimonianza più lontana della mia vita di pittore. Dipinti su fogli o cartoni qualsiasi, di domestica memoria, non mi rivelano un tratto distintivo degli inizi (il solito passato, glorioso e patetico) ma piuttosto alcune mie costanti fisionomiche: l’utilizzazione ad esempio così frequente di materiali vicini, le immagini filtrate o ricostituite da frammenti oggettuali confidenti, quasi la mia pittura nascesse da una stanza, da un uguale e riconoscibile luogo, fisico e psichico, o ad esso ritornasse sempre con i segni ormai inconfondibili e attesi dell’usura e dello straniamento. Ho dipinto in quel tempo immagini di una autobiografia panica, oggetti di memoria-feticci quali dentiere o pennelli da barba, pissoirs maschili o scopini sfasciati, visti, “guardati” letteralmente da un testimone-ragazza, un volto desiderante, esibito con l’oscena evidenza delle sue molte lingue. Ho dipinto scarpe femminili, modelli accurati di scarpette femminili, abitate, non assurdamente abitate, da penifiore, da sessi invadenti e sicuri. Non conoscevo Buñuel e solo adesso so di un Bataille o di un Klossowski, la mia Roberte ce soire firmandosi allora con un nome completo, con un Olga iniziale rifiutato poi come banale e malintesa eredità e ritrovato lì, su quei fogli, come una presenza fastidiosa, con tutto il suo carico di rinnovato disagio. Ho rivisto in quei disegni la mia paura e le mie reticenze di allora, insieme ai cauti suggerimenti, ai custodi mimetici del tempo, delle regole del gioco e delle sue eccezioni coniugate solo al maschile. Ho ricordato che l’io artista aveva avuto paura della donna come di un suo doppio sconfortante e inaccettabile. Così, soffocando quelle immagini, scompariva un mio frammento di identità con quell’Olga natale, pur essa negata al gioco illustre delle probabilità.
Ho dipinto altri fantasmi figurali da allora: con materie diverse (…). Negli ultimi anni mi sono servita di gomme di bicicletta (…). Ma solo quando ho “guardato” quei fogli, quegli acquerelli “Olga Carol Rama” e ho provato a sostituire alla gomma-fantasma la sagoma dipinta della ragazza desiderante, un pissoir, una scarpetta violentata, mi sono detta che adesso, ricomposti nome e figura, accettavo, di una donna e di un’artista, il destino.”
Olga Carol Rama comincia a dipingere da autodidatta prestissimo, i primi lavori, acquerelli scandalosi e teneri al tempo stesso, sono del 1936.
I soggetti sono scarpe femminili, dentiere, scopini, falli-scarpe, letti di contenzione, corpi femminili amputati e sorridenti, lingue appuntite e desideranti, protesi ortopediche.
Impossibile non rimanere colpiti di fronte a questi oggetti da nascondere, scaraventati sul foglio con impudicizia, ma resi allo stesso tempo delicati e “accettabili”, dal colore tenue dell’acquerello e da una struttura formale ironica e leggera.
Sono oggetti “domestici”, come domestici sono i fogli e i supporti sui quali dipinge.
Parla la pittrice: “Sono oggetti d’uso. Li ho sempre visti così, con la carica di sgomento e di erotismo che introducono nella vita domestica. Ero attratta dai vespasiani come dagli interni delle chiese; mi piacevano molto le protesi che erano in casa di una mia zia di Livorno, e le forme di calzature ortopediche ammucchiate dietro il letto ‘800 della mia nonna con gli occhi di maiolica. Ho sempre amato gli oggetti e le situazioni che venivano rifiutati.”
L’arte di questa pittrice è il racconto, è il valore della memoria in senso assoluto.
Edoardo Sanguineti, suo caro amico, parla di lei come il bricoleur di Lévi-Strauss, cioè come colui che a partire da oggetti noti e disponibili, organizza la sua particolare conoscenza del mondo, attraverso un lavoro di accostamento e di fine tessitura.
È proprio questa capacità di costruire, attraverso il racconto mitico, inteso nel senso che ne dà Lévi- Strauss, e attraverso la sapienza di un bricoleur artigiano e intellettuale, il bisogno universale di ordine, di conoscenza del mondo.
Il bricolage è allora “conoscere mitico”, come ci ricorda Sanguineti attraverso le parole dell’antropologo.
L’Arte e l’Antropologia allora, soprattutto nell’opera (intesa letteralmente come “fare”) di Carol Rama, si possono incontrare davvero, sul piano della conoscenza del mondo e di sé, come tentativo di raccontare in un linguaggio immediato e rituale l’eterno Mito dell’Uomo, così come si possono incontrare un ombrello e una macchina da cucire su una tavola di dissezione.
Carol Rama a suo modo dunque, “fa” antropologia, procedendo con passo di surrealista etnografico, come direbbe un altro grande antropologo, James Clifford, proprio scegliendo coraggiosamente di accostare e giustapporre tra loro elementi “d’uso”, vissuti e carichi di memoria, per raccontare storie che ci appartengono.
È questo il senso di un particolare modo di conoscenza che l’antropologo definisce “pensiero magico”, mosso proprio dall’esigenza di ordinare il caos, secondo le proprie necessità. Una esigenza di conoscenza, secondo Lévi-Strauss, per il piacere della conoscenza, prima che per la sua utilità, per il desiderio, prima di tutto, di sapere. Ed è questo il senso che sembra esserci nell’uso “rituale” che Carol Rama fa dei suoi oggetti. “Dipingo per guarirmi”, ha affermato la pittrice, proprio come se, da sciamana misteriosa, dipingendo e ricreando sulle carte, sulla tela attraverso la materia, tutto il dolore, la paura, la ribellione e imparasse prima di tutto a conoscere e a classificare il suo universo e gli oggetti-simbolo della sua storia, e poi li utilizzasse in un elegante rituale di guarigione.
L’arte allora sembra assumere una funzione taumaturgica proteggendo gli uomini (gli artisti ma anche i fruitori) da quella che un altro grande studioso di etnologia, Ernesto De Martino, chiama “la crisi della presenza”, il pericolo e il timore, cioè, di non possedere più risposte adeguate per “essere nel mondo”.
Un esempio chiaro ci viene dalla testimonianza di Massimo Mila, caro amico di Carol Rama, a proposito di un suo quadro a lui dedicato che, insieme alle altre opere dell’artista, creava una forte rottura stilistica e di significato (una trasgressione), nei confronti dell’ambiente artistico torinese rappresentato in quegli anni, soprattutto dalla pittura razionale di Felice Casorati. L’universo di Carol Rama è tormentato, visionario, influenzato da eventi personali e dagli orrori della guerra, poi. Ed è raccontato in modo anche feroce da una donna che in quegli anni e in quell’ambiente, se “osava” un linguaggio trasgressivo e di cruda verità poteva apparire volgare o inaccettabile.
Queste le parole di Mila: “Neanche i torinesi si scandalizzavano più per le scatole di fiammiferi appiccicate in un quadro, i turaccioli, i frammenti di giornale o magari le mutandine da donna col pizzo. Ma Carol che cosa ci metteva nei suoi quadri? Ci fu il periodo delle camere d’aria, ebbi l’onore di fornirgliene parecchie; di bicicletta e di automobile. Poi venne quello delle unghie; unghie di bestie feroci applicate sulle macchie di colore.”
Questa è, mi sembra, l’antropologia implicita di ogni creazione artistica. Ogni opera d’arte, infatti, prima di tutto parla di se stessa, del suo essere “rito”, come pratica magica che mette in relazione l’artista ed il suo fruitore, che crea cioè un dialogo intimo tra il mondo dell’autore, il suo orizzonte culturale, e quello di chi gode esteticamente dell’opera, di chi ne fruisce, appunto.
L’artista dipinge per se stesso, per “guarirsi” ma poi affida la sua opera all’ascolto” degli altri, rendendoli partecipi di questo nuovo universo, quello della creazione, superando la barriera invisibile ma tenace tra l’ “io” e l’ “altro”, condizione necessaria perché avvenga ogni forma di comunicazione, perché, cioè si possa trasmettere un “bagaglio” di informazioni preziose per vivere.
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